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Personaggi illustri

Don Giovanni Paita

Viveva in una modesta casa di proprietà della Parrocchia nell'allora Via Campiazza, e che ora a lui intitolata.
Di umili origini, di carattere ombroso ma buono di cuore, non percorse mai la strada di una carriera, ma rimase sempre coadiutore del parroco di San Martino, vivendo a Bureglio nella povertà fino alla sua morte.
Conduceva una vita di stenti, potendo contare solo sul suo piccolo orto e sulle offerte dei compaesani.
Alcuni lo ricordano maltrattato e spintonato, la tonaca svolazzante, già per via Alberti da fascisti e nazisti che gridavano Pretaccio della malora, durante una retata nel 1944, assieme ad altri uomini del paese, che poi contribuì a far rilasciare.
Immaginando la sua indole, crediamo che mai avrebbe immaginato che alla sua morte i buregliesi decidessero di intitolargli quella che fino ad allora era chiamata Via Campiazza, volendo ricordare quella sua grande virtù, la modestia.

Martino Poletti (1938 - 1947)

La mattina dell'11 Febbraio 1947 a Bureglio, borgata del Comune di Vignone (allora del Comune di Arizzano), nevicava e i rumori, come sempre in tali frangenti, erano molto ovattati.
La nonna Angiulina, come tutte le mattine, era uscita di casa, nello stall da l'usteria, ed era scesa un po' di vicoli più in giù, per mungere la vacca.
Non era domenica, ma era festa ugualmente, per le scuole; era la Conciliazione che celebrava la stipula dei Patti Lateranensi, ed i bambini potevano starsene a casa a dormire ancora un po.
Così faceva il piccolo Martino di quasi nove anni, nipote della Angiulina.
Martino, o Tino, come lo chiamavano tutti, era orfano di madre, che era morta di parto mettendolo al mondo. Il padre Licio viveva lì vicino con la seconda moglie, la Lina: l'aveva conosciuta alla Villa Donati dove faceva il massaro e durante la guerra anche il partigiano; da lei, che era lì a servizio, ma era di Oira, aveva avuto altri due figli, Luigi e Angelo.
L'Angiulina non stette via più di mezzâ ora, fra le sei e le sei e mezza. Al ritorno andò a vedere il piccolo; lo trovò in un bagno di sangue. Spaventata si mise a chiamare aiuto, supponendo una emorragia nasale. Ma i primi intervenuti e, in seguito, il medico condotto Pablo Scaletti (zio di Renato, partigiano ucciso a Ramello pochi anni prima) palesarono la tragica verità : Tino era stato ucciso da diverse coltellate fra la nuca e il collo.
L'autopsia eseguita pochi giorni dopo a Intra confermò che vi era stato un tentativo di strangolamento e poi una rapida successione di coltellate.
Solo 4 giorni dopo i carabinieri avevano individuato la persona che, per ora sospettata, sarà poi, in una lunga e travagliata vicenda giudiziaria, condannata definitivamente nel 1956 come assassino; la chiameremo solo con le iniziali, G.F.
Era un vignonese di 59 anni, di brutto carattere e attaccabrighe, a sentire le testimonianze della gente. Già da tempo aveva espresso intenti di vendetta, soprattutto verso l'ex partigiano Licio.
Il figlio di GF, Remo, milite fascista, era stato fucilato dai partigiani durante la guerra come spia. Da allora GF aveva in animo di vendicarsi; elemento scatenante fu probabilmente una forte polemica sorta dopo che aveva fatto comporre una lapide per Remo, sepolto a San Martino, con una scritta ritenuta offensiva dal CLN locale: Ucciso da mano fratricida . Licio, esponente di spicco del CLN, era stato uno fra quelli che più avevano protestato, anche se con la fucilazione del giovane non c'entrava nulla. La lapide fu rimossa, ed oggi è ancora visibile quella che la sostituì. GF non ammise mai la propria colpa.
Al piccolo Tino vennero tributati solenni funerali, con l'accompagnamento di molta popolazione e di tutti i bambini del paese. Ora i pochi resti sono riposti nei colombari di San Martino, a pochi metri da quelli del giovane Remo.
Alla memoria di Martino Poletti il Comune di Vignone ha dedicato negli anni passati la Casa degli Archi di Bureglio.
La bandiera della pace che sventola assieme al Tricolore da quel municipio, vuole ricordare che anche questo è la guerra a chi non l'ha vissuta e non sa valutarne oggi i disastri materiali e morali che produce.

Renato Scaletti

In una delle villette che sono sorte fra Vignone e Bureglio, lungo la Via Alberti, agli inizi del secolo scorso, ad opera di famiglie milanesi benestanti, alcune delle quali di origine vignonese, veniva e viene, sempre più raramente, in vacanza la famiglia Scaletti.
Ma nel 1944, a causa della guerra, vi viveva stabilmente, in quanto sfollati: l'abitazione di Milano era certamente meno sicura e poi gli eventi degli ultimi anni avevano creato una situazione di grave pericolo per tutta la famiglia.
Renato, che era Tenente del Genio Aeronautico, aveva 29 anni e, dopo l'8 Settembre, si occupava, a quanto riferiscono alcune fonti, della gestione della centrale di Ramello, ma aveva contatti con le bande partigiane locali, in particolare con la formazione della Giovine Italia, che confluirà poi nella Brigata Garibaldi 85ª Valgrande Martire; e, più rischioso ancora, la sua ragazza era di origine ebrea. La famiglia Scaletti la teneva nascosta nella casa di Vignone, dopo l'applicazione delle leggi razziali.
La mattina del 14 Giugno 1944 Renato aveva ormai preso la sua decisione; non poteva più restare a guardare di fronte all'evolversi della situazione; sulle montagne tutto attorno le bande partigiane erano attivissime. Preparato zaino e armi, di buon ora aveva salutato la madre e la morosa e si era avviato giù per Casa dei Muli, verso Ramello, per poi risalire la valle sul versante opposto e cercare un gruppo di partigiani a cui aggregarsi. L'amico partigiano Antonio Miello di Arizzano l'aveva sconsigliato: meglio non da solo e non per quel percorso, troppo scoperto.
Interpretando la sua formazione culturale e l'ambiente in cui era cresciuto, non era una semplice ideologia che lo spingeva; erano i valori di libertà e di giustizia, era la Patria che chiamava ancora una volta il soldato Renato Scaletti e lui aveva risposto, lasciando i propri cari e la casa di Vignone.
Ma il destino lo attendeva proprio in quelle terre un tempo chiamate di Pastura e Viganà, secoli prima contese fra i Vignonesi e i Terrieri di Ramello, al di qua del fiume San Giovanni, quelle che ancora oggi ogni anno ricordiamo nel cosiddetto Incontro-omaggio.
Fu visto, gli spararono dal ponte della Centrale; un colpo di fucile dritto al cuore e Renato aveva finito la sua esistenza. Fascisti e tedeschi chiesero al Ramellesi se sapessero chi fosse, ma nessuno lo conosceva: d'altronde era la verità , Renato era un milanese trapiantato a Vignone.
Se ripercorrete il sentiero che scende da Casa dei Muli, o se attraversate in macchina il ponticello sul San Giovanni dove c'è la Centrale di Ramello, guardate là attorno. C'è un cippo con una croce, che solo pochi anni fa era invaso da felci e rovi. In quel punto Renato trovò la fine ai suoi sogni.
Il medico di Cambiasca ipotizzò trattarsi di un partigiano di origine neozelandese. Il cadavere venne portato al cimitero di Cambiasca.
La notizia giunse comunque alla famiglia; la madre, donne di carattere forte, prese la decisione: riconoscere Renato non sarebbe servito più a nulla, se non a fomentare ritorsioni. Non si fece viva e lasciò che il figlio fosse sepolto a Cambiasca come sconosciuto.
Trovò il modo di aver sempre notizie della tomba del figlio e che qualcuno ne avesse cura; e solo alla fine della guerra lo fece riesumare e trasportare nella cappella gentilizia del cimitero di San Martino.
Questa è la storia che un sabato pomeriggio ci raccontò Rosalba Pavesi nella nostra Biblioteca di Vignone, presso la quale veniva spesso, dopo che era andata in pensione dalla sua attività di maestra elementare. Erano storie semplici, di vita di una volta, quando ad esempio andava a insegnare ad Aurano, talvolta a piedi a causa della neve.
Se oggi andate al cimitero di San Martino, li potete trovare entrambi.
Proprio davanti alla cappella gentilizia della famiglia Scaletti, dove riposano i resti di Renato, c'è la tomba della maestra Rosalba Pavesi.
Una vecchia tradizione dice che, per segnare un confine, si poneva una pietra infissa nel terreno, in piedi, ma in alcuni casi, per meglio segnare il concetto, se ne poneva un'altra al piede, distesa sul terreno. La casualità del destino ha disposto che così, anche visivamente, fosse mantenuta la memoria.

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